Tutto ebbe inizio quando quello che sembrava un elegante turista incontrò dei partigiani in alta Val Pellice…

Verso il 18 marzo del ’44 una pattuglia di partigiani, in perlustrazione sul confine francese, aveva la sorpresa di incontrare un distinto signore, vestito di un impeccabile costume da sciatore, esibente un passaporto verosimilmente in regola. Quale visione d’altri tempi! Di dove poteva venire quell’elegante turista? Non certo dalle desolate valli italiane, in permanente stato di guerra causa i partigiani, né da quelle francesi, in condizioni analoghe, se non peggiori, per la quadriennale occupazione tedesca e l’analoga attività dei «maquisards». Sembrava piovuto dal cielo!
Infatti, appena il turista ebbe la certezza di trovarsi in presenza di partigiani e non di guardie fasciste di frontiera, svelò l’essere suo: era Leccio, il Capo di una missione dell’O.R.I. (Organizzazione Resistenza Italiana) aviolanciato per coordinare l’attività dei partigiani del Nord con quella degli eserciti alleati nel Sud, e appoggiata dall’O.S.S. Nordamericano. Da una baita semisepolta nella neve vennero fuori gli altri due membri della missione, con una valigia radio, pronta a funzionare.

E’ questo l’incipit di un saggio di Carlo Mussa dal titolo “Come nacque il G.M.O.” pubblicato in “Il Movimento di Liberazione in Italia”, n. 9, anno 1950. Il confine francese di cui parla è l’alta Val Pellice, i partigiani di cui parla sono sono quelli di “Capun” Prearo, la missione è la Orange Gobi, Leccio è Mario De Leva, gli altri due sono “Renato” Riccardo Vanzetti e Giorgio Squillace; la radio ricetrasmittente è quella che verrà nascosta nell’alveare dei fratelli Cesan, a Torre Pellice.

Quali furono le conseguenze di quell’incontro?

Così prosegue Carlo Mussa: “Da quel momento l’unità partigiana che si era formata nella valle (Colonna Giustizia e Libertà «Val Pellice») cessò di essere un gruppo isolato di resistenza in territorio nemico e si sentì parte operante dello schieramento alleato. Primi risultati tangibili: l’arrivo degli aviolanci, che mutarono radicalmente la situazione dell’armamento. L’arma tipo dei partigiani di Val Pellice divenne non più il moschetto, ma lo «sten», arma automatica, fatta apposta per le imboscate e i combattimenti ravvicinati.
[…] Accanto a tale fatto, un altro venne a stabilirsi. Oltre agli «Sten» gli aviolanci avevano portato alcuni quintali di T4 : quello che doveva diventare il temuto «plastico» dei partigiani, nonché vari accessori speciali per un razionale e sistematico sviluppo dell’azione di sabotaggio (matite a tempo, capsule a pressione o a strappo, detonatori ecc.)

Ma le conseguenze di quell’incontro andarono ben al di là della Val Pellice: De Leva proseguì subito per Torino, Vanzetti istruì squadre di sabotatori in tutta l’area torinese, la radio di Squillace fece il suo lavoro senza mai essere scoperta e la V Divisione GL “Sergio Toja” divenne l’ossatura di una nuova organizzazione militare, il Gruppo Mobile Operativo. La lotta partigiana da guerra di territorio era diventata guerra di guerriglia, capace di rapide ed efficaci operazioni volte a ridurre la capacità offensiva del nemico dovunque si trovasse, montagna come pianura, come colline del monferrato e dell’astigiano, città come campagna. La cosiddetta “pianurizzazione”.

 

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