Scrive Gino Sandri, il partigiano Ming. Siamo alle Nuove di Torino, è la mattina del 7 aprile 1944.
“Sandri Gino, Lusano Aldo, Grill e Rostan”. Li seguimmo. Lo sbirro di guardia ripeté i rituali di uscita; il borghese che parlava un italiano perfetto, anche se doveva essere tedesco, da un magazzino segreto ci fece raccogliere una coperta.
Dietro di lui, sulle scale dalla parte opposta a dove stavamo noi, al primo piano, aprirono la terza o quarta cella: l’Artom era morto. Il suo corpo era spaventosamente livido, piccolo, la furia nazista lo aveva ucciso, rigido nel freddo della morte, le mosche erano tante su di lui. Alcuni pani ammuffiti testimoniavano che da alcuni giorni Emanuele non mangiava. Forse in quella notte di orgia era servito ancora da buffone e per ridere alcuni si divertono allo scherzo. In quella coperta non ci stava e noi non riuscivamo a piegargli le braccia, ma gli altri non dovevano vedere l’Artom, e fu di nuovo offeso, uno per ogni angolo per portarlo via. Piccolo; e quelli del terzo Reich lo volevano fare sparire; il suo peso non era gran che, il solito camion ci aspettava. Appena saliti, fuori dal carcere, per le vie di Torino, verso la periferia, vicino ai tram, vicino a tanta gente, ma nessuno ci riconosceva. Seduti, sotto la minaccia della machin pistol; ehi, guardate, siamo noi, quelli della Resistenza, c’è anche Artom morto, lo portiamo a seppellire.
Non ci sentivano, troppo rumore in una città. Nessuno di noi quattro era di Torino, io abitavo a Milano, Lusano a Chivasso, Grill e Rostan a Pragelato, nel Sestriere. Il camion passava con il suo carico davanti allo stabilimento Fiat Mirafiori; il mezzo si fermò molto più avanti, in un sentiero di campagna.
Ricordo il rumore di un fiume, fummo fatti scendere, 1’SS scelse il posto, l’acqua scorreva rapida e formava una ansa. Ecco, scavate lì, tra gli arbusti e i rovi. Sul camion stavano picconi e pale, per fare presto si lavorava due per volta. La terra era fredda e dura, il nazista allora ci minacciò: se entro 20 minuti il lavoro non fosse finito, uno di noi due andava a tenere compagnia all’ebreo. Troppe radici erano cresciute in quel bosco; così, ultimata la buca, il corpo dell’ebreo non ci stava; paura, ma con decisione Lusano sistemò ogni cosa. L’ultimo calcio l’Artom lo ricevette da noi e l’SS ghignò soddisfatto.
Reduce dalla deportazione in Germania, Gino Sandri cercò di ritrovare la tomba di Emanuele Artom. Queste sono le ultime parole della sua testimonianza.
Ritornato dalla Germania, ai primi di maggio, andai a cercarlo, ma non mi riusciva di orientarmi e mi dettero troppo poco tempo, scava e scava, tutto fu inutile.
Alla fine della storia vien da chiedersi: perché fare sparire il cadavere di Emanuele Artom? La sua morte non era stata molto diversa dalla morte sotto tortura di centinaia di altri partigiani, non era più accusatrice di cento altre morti efferate. Perché predisporre un così macabro rituale?
Non sappiamo cosa sia passato per la testa delle SS responsabili della vicenda: forse le SS volevano fare sparire il cadavere di Emanuele Artom per vergogna nei confronti di se stessi, perché la loro ignominia era imbarazzante pure per loro. Un modo per cancellarlo inconsapevolmente persino dai loro stessi ricordi. Ma questo presuppone un minimo di coscienza residua nei loro cuori, cosa quanto mai incerta.
(Parte 2 di 2. Fine.)