La mattina del 7 aprile del 1944 in una cella delle Nuove di Torino, una guardia urla quattro nomi: “Sandri, Lusano, Grill, Rostan!” Sono partigiani della val Pellice, della val Germanasca e della val Chisone catturati nel corso dell’Operazione Sparviero; sono destinati a un compito ingrato e sgradevole, quello di fare sparire il cadavere di un altro partigiano catturato nel corso della stessa operazione e morto sotto le sevizie, il cadavere di Emanuele Artom.

Artom era il commissario politico della V GL, era stato catturato anche lui nel corso della Operazione Sparviero mentre dalla val Germanasca cercava di raggiungere la val Pellice; c’era quasi riuscito ma arrivato a Prapic nel vallone Giulian, era stato sopraffatto dalla stanchezza e si era lasciato catturare dai tedeschi. Ruggero Levi, diciassette anni compiuti in quei giorni e suo amico devotissimo, scelse di restare con lui: deportato a Mannheim, gli sopravviverà.

Emanuele aveva un fisico piccolo e gracile che forse lo destinava già in partenza a soccombere prima o poi da partigiano in montagna; era uno studente, un intellettuale, dal punto di vista militare doveva addirittura essere d’intralcio, ma non era quella la sua missione. La sua missione era costruire la coscienza civile e democratica di giovani passati alla lotta partigiana sì, ma nutriti fin dalla nascita di idee razziste, nazionaliste e autoritarie. Compito a cui pur nella brevità della sua Resistenza si dedicò con grande lucidità e dedizione lasciando in tutti una traccia indelebile.

E soprattutto Artom era un ebreo, e questo lo rese una preda speciale per i suoi aguzzini, che in quei pochi giorni intercorsi tra la cattura e la morte si accanirono a seviziarlo, vessarlo e umiliarlo.

Qualcosa di quello che fascisti e tedeschi furono capaci di fare a Emanuele Artom ce lo ha raccontato Gino Sandri, il partigiano Ming, un garibaldino catturato in alta val Luserna dopo la battaglia di Pontevecchio, che si trovò ad essergli vicino

Questo il suo racconto. Siamo nella caserma degli Airali di Luserna, è il 25 marzo del 1944.

Nel pomeriggio arrivò l’ebreo, si chiamava Emanuele Artom, lo avevano catturato in Val Germanasca, commissario politico di una brigata Giustizia e Libertà. […] Piccolo allampanato, con grosse scarpe da montagna, calzettoni, pantaloni alla zuava, giacca a vento, quelli delle SS lo accusavano di torture. Ci fecero credere che applicava per mezzo di piccoli imbuti di carta alle unghie piccoli quantitativi di polvere da sparo, che poi incendiava per farle saltare. Inaudito. Il viso gonfio dalle percosse, Emanuele venne obbligato ad ogni cosa più umiliante, tra uno spintone, uno sputo, un calcio. Ridevano divertiti, dimentichi di essere prigionieri ridevamo anche noi dell’ebreo: con le mani lavò tutti i gabinetti della caserma, con le mani raccolse tutto lo sterco dei muli nel cortile. Ogni sorta di angheria fu riservata all’Artom.
Emanuele aveva raccolto da terra qualcosa che sembrava un chiodo, al tedesco che aveva visto fece pensare che volesse svenarsi, d’un balzo gli fu addosso, gli strappò quel ferro dalle mani e mentre diceva «Tu morirai per nostra mano», con un tremendo ceffone improvviso, lo fece ruzzolare due o tre metri lontano. Subì cose tremende, tu Artom la medaglia l’hai presa?
Frattanto il Rossi Walter stava iniziando il suo calvario: il calvario del Cristo fu poca cosa al confronto…

Walter Rossi, “Zanzara”, diciannovenne garibaldino addetto alla infermeria di Rorà. Catturato nel corso della battaglia di Pontevecchio per essersi attardato a nascondere i feriti all’arrivo dei tedeschi; ebreo anche lui, al vedere le sevizie inflitte ad Artom si era autodenunciato. Verrà fucilato a Pian del Lot pochi giorni dopo.

Artom e Rossi furono dileggiati, messi alla berlina da tutti, per disprezzo al Rossi gli furono tagliati i capelli intorno alla nuca e dalle orecchie tagliuzzate dalle forbici perdeva sangue. Poi andarono a prendere un mulo che fecero montare dall’Artom, mentre il Rossi teneva le briglie, scattarono tante fotografie per eternare quel cimelio di guerra, […] per spedire in Germania le loro bravate.

(Parte 1 di 2. Segue…)