Si tratta della trascrizione di un dattiloscritto archiviato nel fondo archivistico della sezione ANPI di Torre Pellice, carte Plinio Pinna Pintor, fascicolo “Cronache partigiane / Servizio di sanità della 1ª Divisione Garibaldi” che il Sistema ArchoS erroneamente posiziona nella Biblioteca delle Resistenze: storia e memoria del Comune di Torre Pellice.

Il dattiloscritto, accompagnato da una semplice lettera autografa su carta intestata del Prof. Dott. Guglielmo Colombo indirizzata a Pinna Pintor, titola “LA NOSTRA PRATICA MEDICO-CHIRURGICA NELLA GUERRA PARTIGIANA”, è intestato “CORPO VOLONTARI DELLA LIBERTA’ Comando VIII Zona Comandante BARBATO (Avv. P. COLAJANNI)” e riporta quali autori “Prof. COLOMBO CRISTOFORO – Dott. GUGLIELMO COLOMBO Medici-Chirurghi di zona”.

Correzioni.
A pag, 3 del testo (pag. 4 del pdf) , primo capoverso, anziché “Dopo una ventina di giorni, e precisamente 1111.X. i tedeschi iniziavano da Barge un rastrellamento…” leggasi “Dopo una ventina di giorni, e precisamente l’11.X i tedeschi iniziavano da Barge un rastrellamento…”. 11.X inteso come 11 ottobre 1944.
Più sotto, al terzo capoverso, anziché “V° Divisione Alpina C.L.” leggasi “V Divisione Alpina G.L.”.
A pag. 4 del testo (pag. 5 del pdf), penultimo capoverso, anzizhé “quando il termometro segnava 140-200 sotto zero” leggasi “quando il termometro segnava 14°-20° sotto zero”.
A pag. 8 del testo (pag. 9 del pdf), terzo capoverso, anziché “Quando ci spostammo con la 1054 Brigata” leggasi “Quando ci spostammo con la 105a Brigata”.

Qui la versione solo testo.

In copertina: feriti e personale di cura nei giorni della Liberazione a Torino. Foto fondo ANPI Torre Pellice. L’autore ha fotografato quello che sembra essere il pannello di una mostra in cui si può osservare la foto del camion accompagnata dalla didascalia “1° Maggio 1945 a Torino – Partigiani feriti alla sfilata” (vedi qui). Potrebbe in realtà trattarsi della sfilata della Liberazione, il 6 maggio 1945. E’ improbabile che i feriti fossero condotti per le strade di Torino il 1° maggio, quando ancora la città non era sicura per via dei cecchini; è improbabile che i partigiani andassero alla celebrazione del Primo Maggio armati (come si vede qui) e che anzi assumessero pose marziali, come fa il partigiano al centro.

 

LA PRATICA MEDICO CHIRURGICA NELLA GUERRA PARTIGIANA

GRUPPO VOLONTARI DELLA LIBERTA’
Comando VIII ZONA
Comandante Barbato (Avv. P. Colajanni)
Prof. Colombo Cristoforo – Dott. Guglielmo Colombo
Medici chirurghi di zona

La nostra pratica medico-chirurgica nella guerra partigiana

Quando, nella prima metà del settembre 1944, fummo invitati dal C.L.N. ad andare a prestare la nostra opera di chirurghi nella valle del Po, ci fu prospettato un quadro della vita partigiana assai diverso da quello che trovammo nella zona in questione. Invero, in seguito alla invasione della Francia dal Sud e dal Nord da parte delle truppe alleate ed alla ritirata tedesca dalla valle del Rodano, i tedeschi L di stanza in Italia si erano visti costretti a portarsi sulla linea di confine italo- francese, e ad occupare molte valli alpine, sino allora tenute dai partigiani.

Il nostro programma di partenza, di lavorare in un ospedale da campo situato in una località montana (Pian del Re) relativamente tranquilla e sicura da attacchi nemici, sfumò pertanto subito al nostro arrivo a Barge. Giungemmo anzi in questa cittadina verso la fine di un grande rastrellamento e dovemmo, dopo poche ore di fermata, spostarci verso Cavour.

Abboccatici coi comandanti e commissari della 1a Divisione garibaldina, fummo ben tosto edotti sulla reale situazione partigiana nella zona. A rastrellamento finito, i patrioti si sarebbero riuniti in squadre e in distaccamenti, formati da poche decine di uomini, dislocati in località della montagna e della pianura limitrofa, nell’intento di sabotare ed attaccare i nemici e allo scopo di avere una agilità di manovra da consentire rapidi spostamenti.

Nella ampia zona dove era dislocata la Divisione (val Luserna, valle Infernotto, Barge, Bagnolo, Bibiana. Cavour, Villafranca) numerosi erano i presidi nemici (Luserna, Bibiana, Cavour, Moretta).

I comandanti ci consigliarono, pertanto, un servizio ambulante, di accorrere cioè in bicicletta, su chiamate di staffette, presso le varie squadre dislocate in pianura ed in montagna.

Poco pratici alla cura della vita partigiana, proponemmo invece di costituire una o più infermerie situate in una zona di relativa sicurezza, dove accogliervi i feriti ed i malati, che avrebbero potuto avere cure più assidue e migliori.

Il comandante della Divisione, Barbato (Avv. Pompeo Colajanni) accolse la proposta e costituimmo così due infermerie: una sulle falde del Monte Bracco. a circa un’ora di cammino da Barge, e un’altra in pianura, al centro del cosiddetto “quadrilatero” compreso fra S. Martino di Barge, la Crocera di Barge, Revello e Saluzzo.

Nella infermeria di pianura, difficilmente reperibile da chi non conosceva molto bene le innumerevoli strade e sentieri della campagna, tenevamo i feriti più gravi; nell’altra, considerata meno sicura perché più vicina a Barge, feriti più leggeri e i convalescenti. Lo studente di medicina Fiandino presiedeva alla infermeria del Monte Bracco, noi a quella del quadrilatero: una staffetta stabiliva il collegamento e noi ogni due giorni ci recavamo al Mombracco per la visita.

Chiudemmo invece dopo breve tempo, perché meno sicura e per consiglio del Magg. Medico Beradinone, allora vice-comandante delle Divisione, una 3a infermeria situata presso il Villar di Bagnolo, poco discosto dalla carrozzabile che porta alla Cava del Manford: i malati ed il materiale vennero accentrati alle altre 2 infermerie.

È forse interessante una breve descrizione di queste infermerie per rendersi conto di quali fossero i nostri mezzi. L’infermeria delle Combe (Mombracco) non era che una casupola di montagna priva di luce elettrica e di impianto idrico (l’acqua veniva attinta da un pozzo). V’erano cinque letti per i più malati e gli altri dormivano sul fienile col personale. L’altra era costituita da due camere di granaio (una senza soffitto) con disponibilità di solo due letti per i più gravi, mentre gli altri dormivano sulla paglia: anche qui si mancava di luce elettrica e l’acqua veniva attinta ad una pompa; la cucina si faceva all’aperto. La camera di degenza della infermeria dì pianura in caso di necessità avrebbe potuto essere adibita a camera operatoria. Eravamo ben forniti di strumentario chirurgico e di materiale di medicazione che avevamo portati con noi da Torino, dimodoché avremmo potuto far fronte a qualsiasi evenienza. Il trasporto dei feriti e malati alle infermerie veniva sempre compiuto di notte a mezzo di carri.

Curammo in questo periodo 14 feriti di varia entità oltre a diversi malati, alcuni anche ambulatorialmente. Fra i feriti ricordiamo un caso interessante, quello del garibaldino Romeo, il quale, guidando una marcia notturna di una squadra sulle falde del Monte Rumella cadeva in un burrone riportando commozione cerebrale durata 72 ore ed una contusione polmonare con emoftoe: riavutosi dalla commozione residuava una paralisi motoria e sensitiva dell’arto inferiore sx con presenza dei riflessi tendinei, senza cloni né Babinski né Oppenheim. Durante i 20 giorni di ricovero il trofismo muscolare si mantenne ottimo e la sintomatologia nervosa immodificata. La paralisi scompariva poi improvvisamente in seguito ad una lievissima ustione colla sigaretta, dimostrando così trattarsi di una paralisi isterica.

Dopo una ventina di giorni, e precisamente l’11.X i tedeschi iniziavano da Barge un rastrellamento in varie direzioni, ed accompagnati da una spia all’infermeria delle Combe bruciavano tutto il materiale contenutovi: fortunatamente i malati potevano allontanarsi per tempo e nessuno di essi cadeva nelle mani del nemico.

Frattanto anche l’altra infermeria era in allarme, ed essendo noi stati chiamati d’urgenza al Villar di Bagnolo per un garibaldino che si era accidentalmente reciso tutti i tendini flessori delle 4 ultime dita della mano S. provvedemmo ad allontanare i degenti più lievi, mentre i due più gravi non trasportabili venivano nascosti in una buca abilmente mascherata, e questo li salvava dalla cattura. Essi venivano poi sgombrati nella notte successiva.

Questo episodio ci dimostrava anche troppo chiaramente che nelle condizioni in cui ci trovavamo costretti, il voler impiantare delle Infermerie costituiva un pericoloso errore, sia per il timore della delazione e dello spionaggio, sia per l’impossibilità di difendere la zona da attacchi in forze – cosa invero molto più facile nelle valli di montagna – attacchi che potevano verificarsi in qualsiasi momento senza neanche la possibilità di essere preavvisati e di provvedere allo sgombro dei degenti. La nostra linea di condotta doveva dunque mutare.

Ne seguì un colloquio col comandante Barbato, nel quale decidemmo che era necessario decentrare i malati; questi dovevano essere celati in cascine isolate e dovevano esservi trasportati in ore notturne segretamente, all’insaputa non soltanto della popolazione, ma degli stessi compagni, in modo da evitare il pericolo dello spionaggio, e col vantaggio che in caso dl rastrellamento molto difficilmente sarebbero potuti cadere nelle mani del nemico più di uno o due malati. Fu inoltre stabilito di creare una zona franca, che chiamammo pomposamente “zona ospedaliera”, da tenere nel momento secreta, in cui dovevano esser dislocati i malati più gravi, ed in cui per contro non avrebbero dovuto sostare formazioni partigiane e soprattutto, per accordo anche col comando della V° Divisione Alpina C.L. che già ci aveva inviati in cura alcuni suoi malati e feriti, non avrebbero dovuto verificarsi azioni di sorta, in modo da stornare l’attenzione del nemico, e da non destare sospetti, rendendo più difficile l’eventualità di un rastrellamento.

Le difficoltà erano peraltro notevoli. Prima di tutto occorreva trovare padroni o amministratori o affittuari di cascine disposti ad ospitare feriti: il rischio che comportava questa ospitalità era ben noto nella nostra zona (depredamento dei beni, incendio, condanne) e naturalmente ben pochi erano i coraggiosi disposti ad offrirsi. Si aggiunga che se non si conoscevano gli individui, si poteva correre il rischio di collocare il malato proprio nella casa di un fascista o di un delatore… In secondo luogo vi era la difficoltà di rifornire sistematicamente di viveri e dei generi di conforto i malati isolati dalle loro formazioni, e ancora: la distanza che separava un ferito dall’altro, molte volte notevole (20,30 e più chilometri alle volte), costituiva un intoppo non indifferente all’assiduità delle nostre cure: infine era auspicabile avere anche un ambiente adatto per potere eseguire operazioni di una certa entità. A tutte queste difficoltà provvedemmo progressivamente: la prima era la più difficile da superare, trattandosi di vincere l’indifferenza e spesso anche la resistenza di gente che ospitando i malati tutto aveva da perdere e nulla da guadagnare. E qui ci venne validamente in aiuto il dott. Maurizio Fontana di Villafranca (il comune che avevamo scelto come zona di accentramento malati) che fu da allora il nostro migliore collaboratore per la sistemazione e la cura dei partigiani: egli, valendosi della sua posizione di medico e delle molte conoscenze locali, ci aiutò in modo che nella zona di Villafranca possiamo oggi dire che nessun malato rimase mai senza un letto.

In seguito provvedemmo al collegamento nostro con tutte le formazioni partigiane a mezzo di un sistema di staffette che faceva capo alla polizia di Villafranca per le chiamate urgenti; due staffette, uomini ’ anziani di assoluta fiducia e segretezza, provvedevano inoltre due volte alla settimana al rifornimento viveri pei malati.

Si aggiunga che era nostro sistema recarci immediatamente nelle formazioni tutte le volte che si aveva notizia di un rastrellamento od una puntata nemica: e ciò era indispensabile allo scopo di provvedere subito allo sgombro ed alle cure degli eventuali feriti.

Quanto alla difficoltà frapposta dalla distanza (poiché non tutti i malati, ma solo i più gravi, erano nella zona di Villafranca in cui noi stessi abitavamo), qui si trattava soltanto di buona volontà, dovendosi alle volte superare in una giornata 70-80-90 chilometri di strada, ed avendo come unico mezzo di locomozione la bicicletta (e non era l’ideale quando il termometro segnava 14°-20° sotto zero, e le strade erano ricoperte di ghiaccio o di fango!).

Per i casi di maggiore gravità, che richiedevano operazioni in ambiente adatto, due ospedali furono messi a nostra disposizione dai medici dirigenti: quello di Barge e quello di Vigone: entrambi bene attrezzati, più di una volta si resero preziosi, pur essendo sia i medici (Dottori Guerini e Bollati di Barge, dottor Brun di Vigone) che il personale ben consci del grave rischio che correvano: ed è a loro in modo particolare che va tutta la nostra riconoscenza, come a tutte le persone che con generoso impulso ci furono prodighi di aiuti e che sentiamo il dovere di ricordare qui : la crocerossina Bollati di Villafranca, la famiglia Rivoira di Cavour, la famiglia dei Baroni d’Isola e la crocerossina Baronessa di Bagnolo, l’ostetrica Rovano di Barge, il Vicario di Barge Don Agnese.

Per otto mesi curammo feriti e malati secondo il programma organizzativo che abbiamo brevemente esposto. Forse chi non ha vissuto questo genere di vita difficilmente riuscirà a comprendere quanto numerosi fossero gli stratagemmi, gli artifici, le finzioni cui eravamo costretti, e che si affinavano man mano che aumentava la nostra esperienza. Per un certo periodo i rastrellamenti avvenivano per lo più nelle prime ore del mattino, quindi era prudente giungere alle varie squadre non prima delle 10; negli ultimi mesi invece le puntate nemiche, che in certi periodi erano quasi giornaliere, con varie basi di partenza, tanto che il nemico si poteva incontrare in qualunque ora ed in qualsiasi direzione, era meglio spostarsi nel tardo pomeriggio o di notte. E di notte più d’una volta trasportammo sulle nostre biciclette o sui carri qualche ferito noi stessi perché nessuno sapesse dell’avvenuto movimento! Il nostro arrivo in ogni paese era sempre preceduto da informazioni raccolte per istrada per non cadere nelle mani del nemico, al quale la nostra presenza era già stata segnalata.

Fu sempre nostra cura assidua tenere celati a tutti non solo il nostro nome (vivevamo sotto pseudonimi) ’ ma anche la nostra attività: per alcuni eravamo geometri, per altri ingegneri. per altri rifugiati politici, e viaggiatori di commercio… Ben pochi sapevano la nostra precisa ubicazione, all’infuori di quanti provvedevano al collegamento con le formazioni.

La cospirazione, attuata in ogni particolare, fu la miglior difesa dei nostri malati e nostra. Possiamo ben dire che nella nostra zona la cospirazione, l’astuzia e l’iniziativa personale furono una forza superiore alle stesse armi.

Ad una sessantina ascendono i feriti ed i malati gravi che curammo con questo sistema organizzativo. oltre a diversi altri che furono da noi visitati per malattie di lieve entità.

Dal punto di vista strettamente medico le osservazioni da fare sono poche. Ricorderemo la frequenza di infezioni gangrenose diffusive e di vere gangrene gassose in feriti da proiettili di pistola o di moschetto o di armi automatiche. La ragione principale è da ricercarsi nel fatto che proiettili feritori erano notoriamente spesso solo parzialmente camiciati o addirittura erano esplosivi: e quando, a guerra di liberazione ultimata, potemmo radiografare nostri ed altri malati nell’ospedale partigiano di Torino, rilevammo non di rado la frantumazione di proiettili in minutissime schegge, dovute verosimilmente ad una esplosione della pallottola.

Usammo largamente e con risultati favorevoli la sulfamidoterapia, per via orale e parenterale, e particolarmente efficaci e ben tollerati ci sembrarono i sulfamidici con tiazolo. Usammo anche abbondantemente i sulfamidici per applicazione locale: una polvere di sulfamide con piridina e novocaina, fornitaci dal dott. Boselli. Oltre ad una evidente azione favorevole sul decorso delle più o meno gravi infezioni locali (è stato dimostrato da Boselli che la novocaina bellica aveva una azione simile a quella dei sulfamidici), aveva anche una notevole azione analgesica; il che rendeva il medicamento ben gradito ai nostri feriti, che nel loro ingenuo linguaggio avevano battezzato il medicamento “la polvere miracolosa”.

Tra i casi più interessanti capitati alla nostra osservazione vogliamo ricordarne tre, degni di rilievo.

Innanzi tutto il caso di Petralia (s. ten. Vincenzo Modica), comandante la Divisione garibaldina. Questi il 30-XII-44 riportò in combattimento a Campiglione una ferita da pallottola al braccio s. che aveva provocato una grave emorragia esterna per cui fu , ricoverato dal nemico in gravi condizioni di anemia all’Ospedale militare di Pinerolo. Poche ore prima di subire l’interrogatorio veniva fatto fuggire e trasportato su un calesse da alcuni partigiani e veniva affidato dopo 9 giorni dal ferimento alle nostre cure.

Egli presentava una ferita d’arma da fuoco trapassante il braccio sinistro al limite tra 30 medio e 30 inferiore, con foro d’entrata posteriore e foro di uscita sulla faccia mediale, entrambi piccoli, regolari; si constatava frattura dell’omero allo stesso livello, paralisi del mediano e paresi del radiale e grosso ematoma pulsante con fremito vibratorio sistolico sulla faccia anteriore ed interna del braccio per la lunghezza di circa 10 cm. Il polso radiale era a sinistra pressoché scomparso, l’avambraccio e la mano assai edematosi, più freddi dei simmetrici, le condizioni generali scadenti anche per l’intenso dolore.

L’ematoma pulsante era probabilmente dovuto ad una lesione dell’arteria omerale data la sede del foro di uscita proprio sul decorso del vaso e i gravi disturbi di nutrizione dell’arto.

Gli applicammo una trazione a pesi con cerotti sull’avambraccio, lasciando al letto del malato un laccio emostatico e come assistente il farmacista dott. Balcet di Pinerolo, farmacista che avrebbe potuto chiamarci ad ogni ora.

I risultati iniziali furono discreti: non aumentato l’ematoma pulsante, diminuiti l’edema e i dolori. Ma dopo pochi giorni, dovendosi provvedere al suo trasporto in località più sicura, fu rimossa la trazione, venne applicato un bendaggio gessato toraco-brachiale e di notte, su un carro, venne trasferito in una sede discosta pochi chilometri. Dopo 4 giorni dall’applicazione del bendaggio e dopo 16 dal ferimento, in seguito ad uno sforzo il ferito avverti dolore vivo con senso di costrizione al braccio e in poche ore la mano divenne molto edematosa, cianotica e poco sensibile. Demolito prontamente l’apparecchio, constatammo paralisi del radiale che si ricuperò nello spazio di circa 13 gg. durante la trazione a pesi che venne riapplicata.

L’interesse del caso sta nel fatto che l’ematoma pulsante regredì spontaneamente e potemmo osservare la sua totale scomparsa dopo circa 2 mesi. Molto più lenta fu la consolidazione della – frattura che avvenne solo dopo 5 mesi, per quanto la frattura fosse in più frammenti e i monconi bene affrontati; evidentemente i disturbi trofici hanno ritardato il processo riparativo. Il polso radiale è | ricomparso a poco a poco, sebbene sia attualmente – più piccolo del simmetrico; il trofismo è discreto: persiste invece una paresi del mediano e una – riduzione dei movimenti del gomito che è stato a ‘ lungo immobilizzato.

Altro caso degno di rilievo è quello del partigiano Moro, della XI Divisione, il quale riportò una ferita accidentale da pallottola di rivoltella alla coscia sinistra: immediatamente comparve paralisi e anestesia della gamba e del piede. Egli presentava f.a.f. trapassante le parti molli della coscia con foro di entrata al 10 medio lungo la linea direttiva dei vasi femorali e foro di uscita al 3° inferiore sulla faccia dorsale; voluminosa tumefazione circostante il foro di entrata, pulsante ed espansiva, con fremito vibratorio e soffio sistolico, allungata longitudinalmente, diffusa fino al cavo popliteo; edema della gamba che era cianotica, insensibile e paralitica.

Con diagnosi di ematoma pulsante della femorale praticammo sulfamidoterapia e coagulanti, ma dopo 7 giorni fummo chiamati d’urgenza perché si era ripetuta nello spazio di poche ore una emorragia discreta ed erano comparsi violentissimi dolori al poplite e alla gamba. Constatammo che l’ematoma era assai aumentato di volume ed era molto teso, la gamba e il piede erano assai più freddi dei simmetrici ed era comparsa sulla testa del V metatarso un’area cianotica ricoperta da una flittene emorragica.

Decidemmo di intervenire prontamente in rachianestesia previa applicazione del laccio emostatico, procedemmo alla incisione dell’ematoma e reperimmo l’arteria femorale completamente sezionata. Procedemmo alla legatura dell’arteria e della vena a monte e a valle della lesione, ritenendosi dalla maggior parte degli AA. più utile per la nutrizione di un distretto vascolare la legatura contemporanea della arteria e della vena (v. C. Colombo: “Ematoma pulsante traumatico dell’a. Poplitea” Arch. per le sc. Med., 1943).

Il risultato è stato favorevole fin dalle prime ore dell’intervento, essendo cessati i dolori, ed essendo l’arto più caldo. L’area cianotica del piede si ridusse e scomparve in alcuni giorni. Quando ci spostammo con la 105a Brigata nella marcia per la liberazione di I° Torino, lasciammo il ferito all’ospedale di Barge con la paralisi dell’arto da evidente sezione dello sciatico al poplite. Il ferito fu trasferito in altro ospedale di provincia per la continuazione della cura.

Interessante ci sembra anche il caso di “Veglia”, garibaldino della 1° Divisione, IV Brigata, che visitammo nei pressi di Montafia durante un giro di ispezione sanitaria nella VIll Zona. Presentava nel marzo 1945 una tipica sindrome di Schonlein-Henoch, con febbre, melena, porpora cutanea, artralgie. Guarì spontaneamente e bene in pochi giorni con cura sulfamidica.

Molti altri feriti e malati meriterebbero di essere ricordati, non per l’interesse medico ma per descrivere con quali mezzi di fortuna furono curati: interventi operatori anche seri eseguiti in stanze di cascine, cura di due fratture del femore con trazione eseguita in ambiente inadatto: cura di una broncopolmonite attuata in una stalla, unico ambiente riscaldato durante il rigido inverno.

La brevità che ci siamo imposti non ci consente di trattarne, e, d’altronde, crediamo e speriamo che la nostra esperienza di vita partigiana resti un ricordo e non sia utile per l’avvenire né a noi né ad altri.

Abbiamo voluto scrivere questa nota solo perché fosse meglio lumeggiata sotto l’aspetto medico la vita partigiana. Il programma da noi svolto potrà essere stato diverso da quello attuato in altre località: in territori tenuti validamente da partigiani poteva naturalmente sussistere anche un ospedale partigiano. Nella nostra zona, tenuta dai nazi-fascisti, in cui le formazioni partigiane inferiori di numero ed armamento al nemico, distribuito come una rete ad attuare la guerriglia, il lavoro, anche quello medico, era assai difficile perché doveva effettuarsi fra le file del nemico con criteri di rigorosa cospirazione.

Come s’è detto sopra, i malati da noi curati con il sistema descritto . ammontano complessivamente ad una sessantina, oltre a quelli curati nelle infermerie: il loro numero ‘ non è molto grande, ma grande fu lo sforzo che si dovette fare per curarli e rendere efficiente il nostro servizio: uno solo di essi è morto per dissanguamento, mentre cercavamo di compiere una trasfusione di sangue: e fu proprio l’ultimo che curammo per una ferita accidentale del polmone. Tutti gli altri guarirono, o stanno guarendo. Ma quello che vorremmo citare qui, non sappiamo se più a nostro titolo di merito, od a ringraziamento della sorte che ci fu favorevole, il fatto che nessuno dei nostri malati sia mai caduto – per tutto il periodo in cui fu in cura da noi – nelle mani del nemico: ed è questa forse la migliore dimostrazione della bontà del sistema da noi usato.