Paolo Colombo
Intervento al convegno “1945-2025, 80 anni: Memorie della Liberazione a Villafranca Piemonte”, Villafranca Piemonte 13 settembre 2025.

(Trascritto da TurboScribe.ai. revisionato da anpivalpellice.it)

[…] Questa occasione ci fa pensare come persone normali in un’occasione particolare si sente trasformate in persone speciali. Ma mio nonno Rino forse normalissimo non era: [aveva] una notevole capacità mnemonica, resistenza alla fatica e un discreto equilibrio fisico.

Ottenne la maturità liceale a 16 anni, la laurea in medicina e chirurgia con pieni voti a 22 anni; si specializzò in chirurgia generale a 37 e ottenne la libera docenza in patologia chirurgica e poi in clinica chirurgica.

Primario in chirurgia, come già stato detto, a 48 anni e dal ‘46 al ‘53 è stato docente di semiotica chirurgica all’università di Torino.

A riconoscimento della sua personalità scientifica, viene eletto presidente della Società Piemontese di Chirurgia, vicepresidente della Società Italiana in Chirurgia e presidente dell’Accademia in Chirurgia di Torino. Questa una brevissima [nota del]la sua figura professionale.

Maria Carla Colombo
Intervento al convegno “1945-2025, 80 anni: Memorie della Liberazione a Villafranca Piemonte”, Villafranca Piemonte 13 settembre 2025.

(Trascritto da TurboScribe.ai. revisionato da anpivalpellice.it)

Sono Maria Carla Colombo, la figlia di Cristoforo Colombo, detto Rino. Nell’ottantesimo anniversario della Liberazione riprendo gli scritti di papà sull’organizzazione sanitaria partigiana: dedico ai sette carissimi nipoti questa parte importante della mia storia nel libro intitolato “I fratelli Bianchi”, che ho scritto.

Io nasco il 3 settembre 1940 a Cavoretto, in casa, in una camera rinforzata da sacchetti di sabbia; ma Cavoretto è insicuro, nel giugno di quell’anno è iniziata la guerra con bombardamenti su Torino. Per le leggi razziali ogni giorno aumentano le limitazioni, tutti i Colombo si trasferiscono a Luserna Alta, papà lavora alle Molinette di Torino, mentre Guglielmo per motivi razziali non è accettato alla clinica pediatrica.

[…]

Durante la guerra papà viene inviato in un ospedale da campo sul fronte occidentale francese, poi in Albania presso l’ospedale militare di Tirana, quindi in Grecia. Ritorna in Italia, lavora all’ospedale Molinette di Torino.

Un mattino, scrive Rino, il 21 luglio 1944, mentre sto visitando i malati nell’ambulatorio a piano terreno, l’infermiera Maria mi dice che due uomini vogliono parlarmi spacciandosi per rappresentanti di medicinali. Mi presento e loro, che si qualificano SS, mi invitano a seguirli al comando. Io, con una scusa di togliermi il camice, entro nell’ambulatorio e con l’aiuto di Maria, che tiene chiusa la porta, salto dalla finestra e scappo. Mentre due SS entrano, mi sparano vari colpi di pistola. Pratico dei meandri ospedalieri, fuggo in maniche di camicia.

Con il fratello, zio Guglielmo, medico-chirurgo specialista in pediatria, decidono di mettersi a disposizione del CLN, Comitato di Liberazione Nazionale. Vengono contattati da rappresentanti del Partito Comunista e nel settembre del 1944 partono con in bici per Barge, dove avrebbero dovuto raggiungere un’infermeria di partigiani.

Vengono bloccati in un rastrellamento tedesco, passano la notte nel pagliaio di una cascina vicino a Bibiana. La mattina dopo, col comandante Barbato, Pompeo Colajanni, iniziano la loro vita partigiana con nome di fratelli Bianchi.

Dopo varie esperienze, così costituiscono due infermerie, una sulle falde del monte Bracco e una in pianura, tra Revello e Saluzzo, dove tenevano i feriti più gravi.

Si resero poi conto che impiantare queste infermerie costituiva un pericoloso errore per l’impossibilità di difendere queste zone. Con il comandante Barbato decisero che era necessario decentrare i malati, trasportarli di notte e nasconderli in cascine isolate. Erano prive di luce elettrica ed impianto idrico.

Venne in aiuto il dottor Fontana, di Villafranca Piemonte, che avvalendosi della sua condizione di medico e con molte conoscenze locali, li aiutò nella sistemazione di alcuni malati.

La distanza che separava i feriti poteva essere di 20-30 chilometri, un intoppo non indifferente all’assiduità delle cure. Avevano come unico mezzo di locomozione la bicicletta ed erano costretti a percorrere più di 90 chilometri su strade sferrate e ghiacciate in modo quotidiano.

Per otto mesi papà e zio Guglielmo percorreranno questi luoghi per riuscire a curare i feriti e i malati, spostando i pazienti per prevenire i rastrellamenti che avvenivano in genere nelle prime ore del mattino.

Nessuno conosce i loro nomi né la loro attività, per alcuni erano ingegneri, geometri, rifugiati politici, viaggiatori di commercio. Il loro lavoro doveva essere fatto tra le file del nemico e nessuno dei loro malati cadde nelle loro mani.

Papà conclude le sue memorie con questa considerazione. “E’ stato sproporzionato l’attestato che il comando partigiano ci ha voluto dare a Montoso nel 1965, nel ventennale della liberazione, quando ci fu consegnata una medaglia d’oro. Con me, Guglielmo e Fontana, è stata festeggiata anche Marisa Diena, Mara, che aveva lavorato come staffetta per tutto il periodo della resistenza, con sacrifici e rischi incomparabilmente maggiori.”

Un ricordo speciale conservo di Gustavo Comollo, Pietro, Giovanni Guaita, Mirko, che umilmente sono stati pilastri essenziali della lotta. Termino citando un articolo comparso sulla Stampa del 18 novembre 2018, in cui campeggia lo scalone del Rettorato di Torino, con i nomi dei docenti ebrei espulsi dall’Ateneo torinese in seguito alle leggi razziali del 1938. Su un gradino è scritto Colombo Guglielmo, il fratello.

Festeggiamo insieme alla sorella Paola il compleanno di papà, molto anziano, con una cena in un famoso ristorante del centro storico. Papà è contento di questo diversivo, chiacchiera volentieri.

Gli chiedo quale periodo della sua vita ricordi più intensamente. Papà non ha dubbi, quello della lotta partigiana: il contatto con persone eccezionali nella loro quotidianità contadina e operaia, la garanzia data ai partigiani feriti di essere curati, una vita illegale, alla giornata; i rischi, le morti, Mirko, Barbato, Petralia, Rivoira…

Il nome del ristorante era Trait d’union.

Foto di copertina: Torino – Sfilata per la Liberazione – Il generale Alessandro Trabucchi, Francesco Scotti e un compagno salutano un drappello di partigiani schierati lungo la strada – Uomo ferito su barella. Fonte: Beni Culturali Regione Lombardia.

Gli altri articoli della serie

5 di 8: C. e G. Colombo, La pratica medico chirurgica nella guerra partigiana

6 di 8: P. Pinna Pintor, Testimonianze sulla attività sanitaria nella I Div Garibaldi

7 di 8: P. Groppo, L’organizzazione sanitaria partigiana a Villafranca

8 di 8: M. Pinna Pintor, Procedure mediche con risorse limitate