Quando Abba Kovner rese la sua testimonianza al processo Eichmann, Hannah Arendt, che stava seguendo il processo per The New Yorker, ironizzò scrivendo che la sua più che una testimonianza era una dotta conferenza.

Abba Kover era stato uno dei leader della resistenza ebraica nel ghetto di Vilnius, e all’inizio degli anni sessanta era un rinomato poeta e una figura pubblica di spicco in Israele. A suscitare l’ironia della Arendt in occasione della sua deposizione al processo, era la sua disinvoltura di fronte alla Corte, “la disinvoltura di chi è avvezzo a parlare in pubblico e non gradisce di essere interrotto”.

E tuttavia con la sua deposizione, racconta Arendt, il processo visse uno dei suoi momenti più drammatici.

Kovner doveva raccontare alla Corte di avere sentito dire a suo tempo, durante la guerra, che a organizzare lo sterminio degli ebrei era Adolf Eichmann. E Kovner, senza farci troppo caso, raccontò come fu che ebbe quella informazione.

A dargliela era stato Anton Schmidt, un sergente della Wehrmacht che comandava in Polonia una pattuglia incaricata di raccogliere i soldati tedeschi sbandati che avevano perso contatto con la propria unità: Anton gli riportò quella informazione asserendo che era una voce che circolava negli ambienti della Wehrmacht.

Ma come mai un sergente tedesco andava raccontando queste cose a un ebreo impegnato nella resistenza attiva? La storia non era nuova, era già stata resa pubblica in un paio di occasioni, ma il semplice fatto di essere evocata in quell’aula fece vivere uno dei suoi momenti più drammatici a un processo che pure rischiava a ogni passo di essere travolto dall’impatto emotivo dei fatti e delle testimonianze.

Scrive Hannah Arendt (“Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil”, tradotto in italiano invertendone i termini “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, Universale Economica Feltrinelli 1964, pag. 237 e segg.):

Nel corso delle sue peregrinazioni [Anton] si era imbattuto in partigiani ebrei, tra cui il signor Kovner […] e li aveva aiutati fornendo loro documenti falsi e camion militari. Cosa più importante di tutte: non lo aveva fatto per denaro. Il traffico era continuato per cinque mesi, dall’ottobre 1941 al marzo 1942; poi Anton Schmidt era stato arrestato e giustiziato.

[…] Kovner fu il primo e l’ultimo a raccontare di essere stato aiutato da un tedesco. Nei pochi minuti che [gli] occorsero per raccontare come fosse stato aiutato da un sergente tedesco, un silenzio di tomba calò nell’aula del tribunale; come se il pubblico avesse spontaneamente deciso di osservare i tradizionali due minuti di silenzio in memoria dell’uomo che si chiamava Anton Schmidt. E in quei due minuti, che furono come un improvviso raggio di luce in mezzo a una fitta, impenetrabile tenebra, un pensiero affiorò alle menti, chiaro, irrefutabile, indiscutibile: come tutto sarebbe stato oggi diverso in quell’aula, in Israele, in Germania, in tutta Europa, e forse in tutti i paesi del mondo, se ci fossero stati più episodi del genere da raccontare!

Idith Zertal, un’eminente storica israeliana, suggerisce di considerare l’interpretazione di Arendt del racconto di Schmidt come il punto archimedeo del libro: “Non più semplicemente un libro sul male opaco, cieco e sciocco”, scrive, “ma anche una visione emozionante dell’altra alternativa, della storia che non è stata, che avrebbe potuto essere, e del bene, non meno del male, come parte del possibile”. Una visione così emozionante da portare Zertal a vedere in Schmidt il vero protagonista del libro di Arendt.

L’esatto opposto di Eichmann? La straordinarietà del bene di fronte alla banalità del male?

Sotto, Anton Schmidt.

Qui l’estratto completo dell’episodio.

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Qui un articolo a commento pubblicato dall’Hannah Arendt Center for Politics and Humanities.